all’alba, perché ora voglio serbare lo spirito così, fresco d’alba, con tutte le cose come appena si scoprono, che sanno ancora del crudo della notte, prima che il sole ne secchi il respiro umido e le abbagli.
Quelle nubi d’acqua là pese plumbee ammassate sui monti lividi, che
fanno parere più larga e chiara, nella grana d’ombra ancora notturna,
quella verde plaga di cielo. E qua questi fili d’erba, teneri d’acqua
anch’essi, freschezza viva delle prode. E quell’asinello rimasto al
sereno tutta la notte, che ora guarda con occhi appannati e sbruffa in
questo silenzio che gli è tanto vicino e a mano a mano pare gli
s’allontani cominciando, ma senza stupore, a schiarirglisi attorno, con
la luce che dilaga appena sulle campagne deserte e attonite. E queste
carraje qua, tra siepi nere e murice screpolate, che su lo strazio dei
loro solchi ancora stanno e non vanno. E l’aria è nuova. E tutto, attimo per attimo, è com’è, che s’avviva per apparire. Volto subito gli occhi per non vedere più nulla fermarsi nella sua apparenza e morire. Così soltanto io posso vivere ormai. Rinascere attimo per attimo. Impedire che il pensiero si metta in me di nuovo a lavorare, e dentro mi rifaccia il vuoto delle vane costruzioni.
La città è lontana. Me ne giunge, a volte, nella calma del vespro, il suono delle campane.
Ma ora quelle campane le odo non più dentro di me, ma fuori, per sé
sonare, che forse ne fremono di gioia nella loro cavità ronzante, in un
bel cielo azzurro pieno di sole caldo tra lo stridio delle rondini o nel
vento nuvoloso, pesanti e così alte sui campanili aerei. Pensare alla
morte, pregare. C’è pure chi ha ancora questo bisogno, e se ne fanno voce le campane. Io non l’ho più questo bisogno, perché muoio ogni attimo, io, e rinasco nuovo e senza ricordi: vivo e intero, non più in me, ma in ogni cosa fuori.
(Uno , nessuno e centomila - L. Pirandello)
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