lunedì 25 giugno 2012

tratto da ILGIORNO DELLA CIVETTA,

bellissimo romanzo sulla mafia scritto da Leonardo Sciascia

« Io ho una certa pratica del mondo; e quella che diciamo l’umanità, e ci riempiamo la bocca a dire umanità, bella parola piena di vento, la divido in cinque categorie: gli uomini, i mezz’uomini, gli ominicchi, i (con rispetto parlando) pigliainculo e i quaquaraquà Pochissimi gli uomini; i mezz’uomini pochi, chè mi contenterei l’umanità si fermasse ai mezz’uominiE invece no, scende ancor più giù, agli ominicchi: che sono come i bambini che si credono grandi, scimmie che fanno le stesse mosse dei grandiE ancora più giù: i pigliainculo, che vanno diventando un esercitoE infine i quaquaraquà: che dovrebbero vivere come le anatre nelle pozzanghere, chè la  loro vita non ha più senso e più espressione di quella delle anatre…»

martedì 27 marzo 2012

murodiberlino


il murodiberlino è dentro noi.
Nel nostro cuore.
Nella nostra anima.
Nella nostra testa.
Lo senti? 
L'altro ieri lo chiamavi NEGRO, ieri lo chiamavi TERRONE, oggi lo chiami ZINGARO.
E domani? Domani chissà... chissà quanti altri muratori aggiungeranno mattoni e filo spinato e lamette al tuo invalicabile muro che nessun piccone riuscirà (mai) a scalfire.
Il muro della vergogna si è fermato all'anno 1989 ed alla 136^ rosa. Tu puoi fermarti prima, se lo vorrai davvero

mercoledì 21 marzo 2012

GLI ITALIANI

di Pierpaolo Pasolini (pubblicata postuma nel 1992)

L'intelligenza non avrà mai peso, mai 
nel giudizio di questa pubblica opinione.
Neppure sul sangue dei lager, tu otterrai
da uno dei milioni d'anime della nostra nazione,
un giudizio netto, interamente indignato:
irreale è ogni idea, irreale ogni passione,

di questo popolo ormai dissociato
da secoli, la cui soave saggezza
gli serve a vivere, non l'ha mai liberato.
Mostrare la mia faccia, la mia magrezza -
alzare la mia sola puerile voce -
non ha più senso: la viltà avvezza

a vedere morire nel modo più atroce 
gli altri, nella più strana indifferenza.
Io muoio, ed anche questo mi nuoce.

ALLA MIA NAZIONE

di Pierpaolo Pasolini (scritta nel 1961)

Non popolo arabo, non popolo balcanico, non popolo antico
ma nazione vivente, ma nazione europea:  
e cosa sei? Terra di infanti, affamati, corrotti,
governanti impiegati di agrari, prefetti codini,
avvocatucci unti di brillantina e i piedi sporchi,
funzionari liberali carogne come gli zii bigotti,
una caserma, un seminario, una spiaggia libera, un casino!
Milioni di piccoli borghesi come milioni di porci
pascolano sospingendosi sotto gli illesi palazzotti,
tra case coloniali scrostate ormai come chiese.
Proprio perché tu sei esistita, ora non esisti,
proprio perché fosti cosciente, sei incosciente.
E solo perché sei cattolica, non puoi pensare
che il tuo male è tutto male: colpa di ogni male.
Sprofonda in questo tuo bel mare, libera il mondo.

TRASFERIMENTO COMPLETATO

Finito. Il blog è ok. E' stata una fatica immane, ma alla fine sono riuscito a trasferire nel nuovo blog tutti i quasi 300 post che erano nel vecchio. Meritavano di non scomparire. Ed ora sta a me di riuscire a crearne altrettanti, altrettanto belli. Secondo il mio modesto parere, ovvio

mercoledì 14 marzo 2012

LEI

Guardo la mia immagine allo specchio, e per la prima volta mi accorgo che 40 annilasciano il segno.
I segni. 
Sono tanti, alcuni crudeli, altri malinconici. Un po' rabbrividisco. E' quasi come se volessi fermare il tempo che passa perché vorrei tornare indietro per cancellarne qualcuno ed essere quel che non sono stato, quel che avrei voluto essere, quel che neppure io so cosa. 
Ma è solo un attimo, giacché non ho mai saputo cosa avrei voluto essere o diventare. Non me lo sono mai chiesto. Ho costruito il mio percorso di vita tracciandolo giorno dopo giorno, talvolta senza fretta, altre volte con ansia. Talvolta sapendo dove andare, ma il più delle volte brancolando nel buio della mia frettolosa esistenza. Che mi ha portato a desiderare talora una donna, talora un'altra, o un'altra ancora. Con soluzione di continuità sessuale e poco ritorno d'intelletto. Poi mi sono fermato, affranto e sconsolato, in mano un pugno di mosche e una certezza: di esser solo!
Ed è stato proprio quello il momento in cui ho trovato lei.
Ed è così che pian pianino ho ripreso a soffermarmi davanti alla mia immagine allo specchio. Fatta, è vero, di segni crudeli e malinconici. Ma fatta soprattutto di me, della mia vera essenza.
E' lei che mi ha insegnato a guardare di nuovo dentro ai miei occhi. Lei è vera donna, come poche se ne incontrano a questo mondo.
Ed io l'ho scelta per la vita.

LA BORA

Il vento sibila tra le fessure della finestra, mentre la neve picchia con forza sui vetri. 
Un uomo solo lascia che il suo sguardo si perda nell'orizzonte che nessuna luce attraversa. 
Non oggi, perlomeno. 
Il cielo è incazzato con la natura umana e riversa sulla terra quanta più merda possibile, urlandogli in faccia tutto il suo disprezzo; se ne fa portavoce questa bora fredda e pungente che sferza il viso, ne strappa via le lacrime e se le porta lontano lontano, dopo averle congelate. La sigaretta che brucia tra le labbra dell'uomo solo è l'unica parvenza di luce in un mare di tenebre che, improvvisamente, ha abbracciato tutto quel che c'era intorno. 
Rumore di burro che frigge in una padella. 
Calo di tensione, poi il buio diviene assoluto. Il vento, invece, non cessa, continua ad ululare la sua rabbia dando voce ad un silenzio irreale. Mette quasi paura all'uomo solo, il cui sguardo continua a perdersi nella bufera, con fare assente, asettico, mentre la sua pelle vibra di un qualcosa di indefinito che a ragione potrebbe esser paura. 
O felicità. 
O amore. 
Non gli importa di saperlo, stanotte vuol godersi il momento nell'attesa che anche l'ultima luce declini nel posacenere.
Poi chiude gli occhi, e si lascia dolcemente cullare da un vento che prende a ceffoni ogni qual volta provi a sfidarlo. Talvolta però il vento freddo del nord-est riesce a disegnare con dolcezza i lineamenti di un viso, accarezzarne i contorni, e sussurrare parole dolci ad orecchie desiderose di riceverne

UN LUNEDI' DI LAVORO IN UFFICIO

ore 8:30, puntuale, arrivo davanti al cancello della ditta. Non ho il telecomando (sono l'unico a non averlo, ma non è importante), mi fermo, macchina in folle, freno a mano su, scendo con la chiave per aprire il cancello. Una tela tessuta da un ragno. Bella nella sua forma, proprio lì dove dovrei inserire la chiave... La temperatura rigida che c'è stamattina l'ha congelata. E' ancor più bella... cristalli di ghiaccio compongono una forma geometrica... un peccato romperla per inserire una cazzo di chiave dimmerda che mi apre le porte del..l'inferno... Ieri sera sono andato a dormire pieno come un uovo. So che quando vado a dormire satollo faccio sogni strani. Strani e sconnessi, apparentemente senza senso. Anche se, forse, tutte le cose hanno un senso, basta cercarlo, magari nell'inconscio. Così ho sognato che al suono della sveglia non mi alzavo. Si, lo so, dovrei andare al lavoro. Ma non mi va. Voglio dormire. E dormire. E ancora dormire! Non chiamo la mia collega, voglio dormire per tutta la mattinata, lo farò nel pomeriggio. Neppure nel pomeriggio trovo la voglia di chiamare. Continuo a dormire. E l'indomani, idem. Stessa solfa. Non mi alzo e continuo a dormire... Sposto la ragnatela, infilo la chiave, il cancello si apre. I fili della ragnatela, quando li spezzi, restano rigidi a penzolare. Mi piace romperli, ne stacco un altro paio, di fili; così, per gusto e non per necessità... Il peso del ghiaccio è tanto, ma non sufficiente da staccarli dall'asse portante del lavoro che il ragno ha fatto nel fine settimana... Entra un mio collega, fa una battuta condita da una bestemmia "di rinforzo". Rido, il tipo è simpatico! ha detto una gran cazzata, ed io sono sensibile alle cazzate, mi fanno troppo ridere!!! E io vorrei sempre ridere, vorrei che tutti lo facessero un po' di più e si prendessero meno (ma molto meno) sul serio... Il lunedì in ufficio è fatto di un gran daffare che si snoda tra uno sbadiglio e l'altro, tra il lento svegliarsi dei sensi intorbiditi. Non me la sento di imprigionare la mia mente dentro certi rigidi schemi... Devo lasciarla libera di fare, di agire, di pensare, di sognare... però c'è il capo che mi richiama al dovere......... torno alla realtà mentre fuori un pallido sole mi strizza l'occhio... non l'avrei mai creduto, fino a un'ora fa c'era la nebbia! Invece ora vedo la campagna circostante illuminata da sto freddo sole invernale. Riprendo a registrar fatture, dimenticando tutto il resto. Sul cancello il ragno ricompone con fatica la sua tela e mentre si prodiga pensa che questo mondo di merda sia pieno di stronzi che si divertono a distruggere senza motivo le fatiche altrui...

LA FINE DI UNA STORIA

Desiderava solamente tornare a casa, al più prestoed infilarsi sotto le coperte. Aveva le palpebre sempre più pesanti, gli occhi stentavano a rimanere aperti. Viaggiò spedito fino alla tangenziale. Anche stavolta, però, il fato aveva architettato per lui un gran brutto scherzo. Era da poco passata l’una, quando si ritrovò immobile sull’autostrada. Una coda a quell’ora? Pressoché impossibile. Credici, invece: sei fermo! Puoi anche spegnere la tua auto, ora. S’era imbattuto in un fottuto incidente. Di conseguenza, i tempi di rientro si sarebbero notevolmente allungati. In altre circostanze si sarebbe adirato e avrebbe cominciato a smoccolare senza ritegno. Quel giorno però rimase calmo, tranquillo. Rassegnato. La fila procedeva molto lentamente; velocemente invece la sua mente andò a ritroso, ripercorse quella lugubre serata. Poi si spinse oltre, indietro nel passato. Il passato trascorso con lei. Con la mente provò e riprovò tutte le emozioni, tutte le palpitazioni del suo cuore. Tutte le gioie, le speranze, le delusioni. Di tempo ne aveva, del resto. Uno strazio. Bologna. Ancora fermo in autostrada. Pieno di sonno. Di tristezza. Le labbra chiuse e per nulla predisposte al sorriso. Ad una battuta che potesse stemperare la tensione. Quella che era stata una giornata disastrosa e che sperava finisse in un lampo, aveva tutta l’aria di essere infinita. Fermo sull’autostrada a pensare e ripensare di nuovo a quella serata. Ricordare ciò che era appena successo. Immortalare nella propria memoria, per sempre, l’addio più pesante della sua vita. La fine ufficiale di una storia. Il suopiucheamore si era sciolto come neve al sole. Continuava maledettamente a pensare e ripensare, senza interruzione, in maniera sempre più incalzante... quando invece avrebbe  voluto solamente chiudere gli occhi e addormentarsi. Sognare qualcosa di spensierato. Qualcosa che lo aiutasse a superare (e in tutta fretta, anche se si rendeva conto che ciò era impossibile) quella tanto cocente quanto preventivatadelusione. Invece no. Aveva ancora il suo odore addosso, quel profumo lo accompagnava e paralizzava tutti i sensi. Lo avvolgeva e gli stringeva lo stomaco. Glielo contorceva con violenza inaudita. Lo spremeva come un limone. I suoi occhi avrebbero voluto versare litri e litri di lacrime. Invece no. Invece non ce la facevano neppure ad inumidirsi. Avrebbe voluto provar rabbia nei confronti di quella donna, avrebbe voluta odiarla con tutto sé stesso, ma non vi riusciva. Avrebbe voluto non pensare più a lei, ma neppure questa era cosa fattibile. Nell’altra corsia i camion sfrecciavano veloci per giungere in fretta a destinazione, scaricare la merce e tornare indietro. Ogni bestione che passava faceva vibrare violentemente la sua auto. Il suo corpo vibrava molto più violentemente, e non per colpa dei TIR. Fermo in mezzo alla strada, circondato da silenziosi sconosciuti ciascuno dentro la propria auto, l'uomo stava godendosi il momento più brutto della sua vita. Ma non c’era più tempo per pensare, la fila cominciò improvvisamente a muoversi, sempre più velocemente. Si ripartiva. Era giunto il momento di marciare verso casa. L’autostrada dopo un incidente assomiglia molto alla vita. Il cammino lentamente riprende, lasciando alle proprie spalle qualche detrito sparso lungo la carreggiata quale testimonianza di un tragico evento. E un corpo, oramai freddo, sul selciato, pietosamente coperto da un lenzuolo bianco.

RIPRESA DELLE ATTIVITA'

Chiuso in me, lascio che il tempo passi via alla velocità che lui vuole senza nessuna esigenza da parte mia. Mi volgo immediatamente indietro e scopro che qualche errore l'ho fatto, errore per il quale mi sono macerato dentro a sufficienza. Asciugo le lacrime del mio cuore inebetito, mirialzo e riprendo il mio cammino. La strada la so, e la seguo in silenzio. E questo blog ne è la voceSilenzio. Mesi e mesi. Per chi, per cosa, per che non ha granché importanza. Il mio cuore si è perso correndo dietro a improponibili immagini assolutamente artefatte che la mia mente voleva fossero così come le desiderava. La mente gioca brutti scherzi. Mai (più) indurre l'amore.L'amore nasce dentro. Lentamente apre gli occhi e prende a respirare. Poi osserva. Ascolta. Memorizza.Gattona e muove i primi passi.Incerti prima, sempre più sicuri poi. A volte cade, si fa male e piange.Ma si rialza sempre, e il giorno dopo corre già più veloce di prima. Fin quando l'amore resta bambino non smetterà mai di correre e di sognare. Il problema si pone quand'esso diventa adulto

NACQUI SENZA SAPERLO


nacqui senza saperlo, fui sbattuto in questo laido mondo senza che nessuno mi chiedesse il consenso, scritto o orale che fosse. O mi domandasse:
ehi, gamete, ti va di nascere?
Chiesi ai miei del perché di quella loro decisione che coinvolse così pesantemente anche me. Mi risposero:
“Mo' non ti va bene manco questo?”
“No, no, sono davvero felice di esser nato. Però la prossima volta avvertitemi, mi fareste l'uomo più felice del mondo”.
“E' difficile, Gianluca, esser genitori. Si sbaglia, si sbaglia spesso. Si è costretti a prender delle decisioni che coinvolgono altre vite, innocenti vite, ma così è. Mettere al mondo un figlio è un atto di coraggio che non tutti comprendono sino in fondo. E poi preservarlo, farlo crescere, insegnargli la retta via, ma poi lasciarlo comunque libero di scegliere la sua strada poiché è sua la vita. È tua la vita, non nostra, e quel che a noi è parso giusto potrebbe non esserlo per te. Il nostro compito è quello di svezzarti, poi dovrai imparare a camminare da solo, senza paure, ma consapevole del percorso che hai intrapreso. Cadrai spesso, ti farai male, tanto male, lenirai le ferite con le tue lacrime, ma dovrai sempre risollevarti anche quando sarai talmente debole da non farcela più. Ora vai per la tua via, abbandona la nostra, e non voltarti più. Guarda avanti a te, occhio agli ostacoli che incontrerai, e non aver rimpianti. Non esistono gli errori, esistono le scelte. Fai le tue e sii sempre orgoglioso di te stesso. Àmati come noi ti abbiamo amato anche se, talvolta, non te lo abbiamo dimostrato. Saremo sempre orgogliosi di te, sei il nostro figlio, ti abbiamo voluto noi e, come allora ti abbiamo dato la vita, ora ti diamo il dono più grande che un uomo possa desiderare: la libertà”.
Confuso, ringraziai e me ne andai caracollando sulle mie incerte gambe. Caddi subito, mi rialzai, ma poi caddi ancora, e ancora, e ancora. Mi feci male, a volte molto di più. Mi voltai indietro con le lacrime agli occhi, chiamai disperato mia madre, poi con rabbia mi rialzai e imposi a me stesso che era giunto il momento di imparare a camminare da solo. Continuo a cadere, sento ancora il dolore, meno forte di prima, e comunque mi rialzo sempre. I miei occhi guardano sempre davanti, la mia mente torna spesso indietro e si culla nei ricordi della mia fanciullezza, spulciando lì in mezzo qualche spunto della mia reale essenza da sostituire all'io che sono diventato.

FORZATURA DI UN'EMOZIONE

Lui è seduto davanti al solito schermo bianco pronto a riempirlo di emozioni che stavolta non arrivano. Eppure il suo cuore ne ha tante da esternare. C'è un week-end nella terra natia da immortalare, nero su bianco, con tutte le sensazioni delle quali è riuscito a godere. Ma nulla esce da dentro sé, tutto resta ben preservato e trattenuto da un cuore che non ha voglia di aprirsi. Non oggi. Forse è stanco. Forse non sa da dove cominciare. Forse le emozioni sono così tante e concatenate da impedirne l'uscita.
Tutto però ha un inizio, ed anche stavolta è femmina colei che apre le danze. 
In lei scorre anche un po' del suo sangue (speriamo sia poco, pensa talvolta). La prende in braccio e la porta a fare un giro nel giardino. In mezzo ai fiori. Alle piante. E ai mille colori della natura. La bimba, silenziosa, osserva tutto attentamente. I suoi occhi blu roteano su tutto quel che la circonda restando impressionati dalle tante sfumature e dai sospiri silenziosi che le piante offrono a chi le osserva con fare attento. Lei non si distrae, allunga  lentamente la manina per prendere  un fiore che sporge, con fare interrogativo lo mira e lo rimira. Poi lo avvicina a quelle labbra carnose che Madre Natura le ha donato. Lui ride di gusto, allontanando il fiore dalla sua boccuccia, poi con l'altra mano stacca una spiga di lavanda, la annusa e la porge alla piccola. Il viola della spiga le fa strabuzzare gli occhi, poi le sue narici si allargano ed ora anche il suoolfatto riesce a goderne. Le piace quell'odore, continua ad annusarlo restando cheta. Silenziosa. Come tutto ciò che la circonda. Dalla strada il rumore di qualche macchina di passaggio. Dalla cucina la voce della madre e della nonna che ciarlano beatamente mentre preparano la pappa. Il padre siede taciturnosul divano, ufficialmente intento a guardare la tele, di sottecchi lancia lo sguardo oltre la veranda, verso il giardino, ed osserva la propria figlia tra le braccia del fratello. Sembra che lui le stia parlando, ha in mano una spiga di lavanda. Sono passati sei mesi dal primo vagito della bimba, che ora cresce rigogliosa e con una gran curiosità di saperne di più di quel che la circonda. Il padre si sforza di ricordare qualcosa del passato, quando al posto della bimba c’era lui ed anche in quella circostanza il fratello lo nutriva delle scarse conoscenze che aveva del mondo. Ogni tentativo è vano: nella sua mente non vi sono ricordi che lo riportino indietro nel tempo. È il fratello a farlo, talvolta, perché lui invece ricorda tutto. O forse ha solo una fervida fantasia.

DISATTENZIONE

di Wislawa Szymborska 

Ieri mi sono comportata male nel cosmo.
Ho passato tutto il giorno senza fare
domande,senza stupirmi di niente.
Ho svolto attività quotidiane,
come se ciò fosse tutto il dovuto.
Inspirazione, espirazione, un passo dopo
l’altro, incombenze,
ma senza un pensiero che andasse più in là
dell’uscire di casa e del tornarmene a casa.
Il mondo avrebbe potuto essere preso per
un mondo folle,
e io l’ho preso solo per uso ordinario.
Nessun come e perché -
e da dove è saltato fuori uno così -
e a che gli servono tanti dettagli in movimento.
Ero come un chiodo piantato troppo in
superficie nel muro
(e qui un paragone che mi è mancato).
Uno dopo l’altro avvenivano cambiamenti
perfino nell’ambito ristretto d’un batter
d’occhio.
Su un tavolo più giovane da una mano d’un
giorno più giovane
il pane di ieri era tagliato diversamente.
Le nuvole erano come non mai e la pioggia
era come non mai,
poiché dopotutto cadeva con gocce diverse.
La terra girava intorno al proprio asse,
ma già in uno spazio lasciato per sempre.
E’ durato 24 ore buone.
1440 minuti di occasioni.
86.400 secondi in visione.
Il savoir-vivre cosmico,
benché taccia sul nostro conto,
tuttavia esige qualcosa da noi:
un po’ di attenzione, qualche frase di Pascal
e una partecipazione stupita a questo gioco
con regole ignote.

DAI DISCORSI A ME STESSO


Non dirmi cosa devo fare della mia vita.
Non indicarmi la strada maestra.
Io la strada maestra l’ho vista negli occhi di un bimbo.
Quell’azzurro perso nell’infinito grondava sangue.
Ho visto il suo cuore sanguinare
Di una ferita che mai si cicatrizzerà.
L’ho visto correre intorno a un casolare
Inseguito dai suoi compagni
Distrutto, ansimante, continuava a fuggire
Nessuno di loro poteva lenire le sue ferite
Il suo cuore batteva forte
quando la mia mano sul suo petto si è posata
per cercar di fermare quella sua folle corsa.

L’ho vista in me bambino, 34 estati fa
mano nella mano con mio fratello
verso la fine del nostro mondo
E’ lì che l’ho portato. È lì che ci siamo seduti
Sulle colonne di Ercole. Il mondo ai nostri piedi
Ero felice, gli indicai la valle
Un giorno sarà nostro, pensai
Potremo muoverci liberamente lungo quelle strade
La catena era ancora troppo corta per farlo quel dì
Nei miei occhi si rifletteva il mondo che volevo
Lo respirai per sentirmelo dentro per tutta la vita
E ancora oggi, se chiudo gli occhi
Riesco a sentirlo. E lo chiamo libertà

L’ho sentita nelle parole di un’adolescente
Nel suo essere sempre meno bambina, sempre più donna
Nei suoi occhi verdi era tangibile l’allontanamento
Dal suo Io per raggiungere il Noi
Modificarsi, cambiar rotta, allinearsi
Ho osservato la sua entrata nel mondo dei grandi
Che sento ogni giorno meno mio
L’ho vista proceder spedita e veloce
E felice. Seguire il branco, allontanarsi dalla verità
Che solo la fanciullezza ci fa portare dentro
Benvenuta in questo laido mondo, le ho detto
Ma non dimenticare mai quel che eri
Quel che sei, che tanto si discosterà da quel che sarai

Si fa presto, amico, a dimenticare quel che eravamo
I nostri giochi di bambini
I nostri desideri. I nostri pensieri. La nostra felicità
Ogni giorno un po’ di più offuscata
Da un sordido male di vivere
Io però ricordo tutto. Chi ero, cosa volevo
Chi sono, cosa voglio
Mi passo la mano sui capelli sempre più radi e bianchi
Ma sento ancora io miei riccioli neri
Capricci di un bimbo che voleva volare
Ma le sue ali furono tarpate

Oggi, queste ali, si svegliano dal letargo
Perdono qualche piuma
sono un po' stropicciate e anchilosate
Ma lentamente si aprono
Pronte a riprendere il volo
Verso il mio vero Io
Quello che tu hai abbandonato
Per calpestare le orme altrui.
Ti saluto, amico, riprendo il mio volo solitario
Non dolertene più di tanto
Tornerò spesso ad incrociare la tua via

oltre le nuvole

È una bella stellata qui a Bovolenta, stanotte. Fuori dal balcone fumo una sigaretta osservando il cielo. La notte. La mia signora. Lo è sempre stata e sempre lo sarà. La luna, che un giorno mi fu regalata da una magnifica fanciulla. Le stelle. Mi fanno tornare in mente una canzone dei boy-scout quando, tenendoci per mano intorno al fuoco, la cantavamo sommessamente. “quante stelle quante stelle/dimmi tu la mia qual è/non ambisco la più bella/purché sia vicino a te”. Era una preghiera che rivolgevamo a Dio e che poneva fine all’ennesima, dura giornata di campo. Io no. Non pensavo mai a Dio in quei frangenti. Osservavo il cielo mentre cantavo quella canzone, spesso gli occhi si riempivano di lacrime e il canto si strozzava in gola. Cercavo la mia stella. La volevo bella e vicino a Te. Amavo. C’era sempre una qualche ragazza che mi piaceva, al punto da confondere questo sentimento con l’amore. 24 anni dopo guardo ancora le stelle e canto quella canzone, chiedendo al mio dio -che non so neppure chi sia e se davvero esista, ma la cosa non mi tange- di averne una tutta per me. Classico romanticismo di fine giornata che stride con il mio quotidiano, nel quale raramente ne permea anche solo un po’. E quando ciò avviene, la gente sgrana gli occhi. Io però cerco sempre la mia stella, l’ho sempre cercata. Talvolta con ansia, altre volte senza fretta. Ma sono attentissimo ai messaggi che mi vengono trasmessi. Alle reazioni delle persone a quel che dico. Alla capacità che hanno di leggermi tra le righe. Perché il vero Gianluca è quel che si legge fra le righe, è lì che batte il mio cuore. E’ lì che alberga il mio sentimento più puro. Da non mostrare a chicchessia, da lasciar intuire a chi è puro di cuore. La luna, quasi piena, mi guarda e sembra quasi che mi sorrida. Fa sempre così quando amo. E io oggi amo. Amo chi probabilmente non avrò mai, ma mi lascio cullare dalle poche possibilità che ho di averla e lascio che sia. Lascio che il sentimento cresca dentro me al punto tale da farmi impazzire di gioia. Voglio toccare il cielo con un dito. Per poi cadere col viso in mezzo alla polvere. Farmi male. “Non mi va di innamorarmi perché poi ne soffro”. Qualcuno mi ha detto questo, poco fa’. Io voglio soffrire, invece. Voglio sentirmi la sofferenza dentro perché è vero che fa star male, ma è pur vero che amare fa raggiungere l’estasi. La felicità suprema. Che è quella che io desidero. Allora, io oggi mi dico: val la pena di rischiare.

Notte rosa

Raccolgo le mie ultime energie per salutare una mamma con la propria figlia, quattro occhi azzurri che guardavano i miei, stanchi e chiusi, e raccontavano felici la notte passata insonne nel bungalow mentre la pioggia picchiava con forza sul tetto, rendendosi insopportabile. Sorrido ancora a quel piacevole sguardo di donna mentre scendo dal treno nella stazione dove ero arrivato appena due ore prima. Da solo. In mezzo ad un mare rosa, bagnato ed ondeggiante. Ma calmo. Anch'io come il mare, ubriaco e bagnato. E calmo. Anche affamato, direi. Qualcuno dorme per terra, sfinito; altri, infreddoliti, si stringono fra loro. Dei miei amici, nessuna traccia. Vedo Andrea mentre l'ultimo morso di un anonimo kebap si mescola alla carne salata fagocitata a cena; attacca a parlare ripetendo per ben tre volte l'orario di partenza del treno. Cosa che vagamente sapevo già; lo ascolto più o meno attentamente cercando con la forza del pensiero di raddrizzare il percorso sghembo delle sue parole, incerte sui piedi e sballottate di qua e di là dalla forza dell'alcol. Non vi riesco. Memorizzo l'orario, però: 6:24. La stazione è silenziosa, vuota. Il mare rosa è evaporato. Due birriannotano qualcosa sul taccuino; non credo siano numeri di telefono di avvenenti ragazze; anche perché di ragazze in giro non ne vedo. Qualche divisa FF.SS. pulisce con fare certosino il pavimento, per quanto da pulire sia rimasto ben poco. Esco con passo stanco e mi avvio verso il centro. Mi tornano alla mente le urla dei ragazzi che cercano di farsi capire in mezzo ad una musica assordante, con un bicchiere in mano ripieno del solito veleno. Ora ci sono io e il suono dei miei passi. Nessuna macchina in giro. Qualche vecchio silenzioso cammina senza guardarti, altri fermi ai lati della strada parlano sussurrando quasi ad evitare di spezzare l'incantesimo mattutino. Passo col mio zaino colmo di emozioni e di una stanchezza da guinness dei primati. Gli uccellini festeggiano l'arrivo di un nuovo giorno, l'ennesimo senza sole, con tanta pioggia durante la notte. Io quella pioggia ce l'ho ancora addosso. Le mie spalle la ricordano bene, così come le mie scarpe nelle quali l'acqua si è incontrata con la sabbia creando qualcosa di duro proprio sul fondo. Continuo ad ascoltare il silenzio, sfiorando l'asfalto per rendermi ancora più invisibile ad un popolo che lentamente si sveglia dal torpore di una notte passata nel proprio letto a dormire e sognare. Assaporo il momento lasciando scorrere emozioni sulla mia pelle, dimenticando la stanchezza e lasciando evaporare gli ultimi fumi di un fiume in piena che stanotte m'ha investito a colpi di bottiglie da 33 cl. La piazza centrale è già sveglia. Scema il cinguettìo degli uccelli a vantaggio di quello umano. Fanno da cornice qualche pianta e tanti fiori, di tutti i colori. Mi fermo un secondo, trattengo il fiato e resto basito da tanta bellezza. Ecco la gente. I loro passi, le loro voci. Seduta nei tavolini di un bar a far colazione. Davanti a un'edicola a commentare i fatti del giorno. Un bambino corre felice. Sta entrando in chiesa, ed è lì che mi accorgo che sono ancora tante le persone che sentono questo bisogno. Dalla porta aperta giunge odore d'incenso, alle mie orecchie arriva l'eco di note stanche e tediose. Lentamente prosegue la mia avanzata verso l'auto. Non ho bisogni mentre guardo la città che sbadiglia. Nell'aria vibra la Felicità, e tutti con essa. Non si può non esser felici quando, ancora nel proprio letto, ci si stropiccia gli occhi e si prende atto che anche oggi vi sarà un presente da vivere. Io stamani non mi son svegliato; neppure ieri sera; ma sono tanto felice! Felice di esserci, felice di quel che è stato, felice di non sentire il rumore di automobili. Gli uccelli scherzano e giocano tra loro e sovrastano persino le voci umane. Mi fermo un secondo, respiro. È una notte magnifica, che non dovrebbe mai finire. Subito dopo raggiungo la macchina, l'accendo e torno a casa. Cala il sipario sulla notte. E su di me, magnifico eroe insieme ai soliti, magnifici amici.

(TITOLO SCONOSCIUTO)

Il vino batte ancora forte sulle mie tempie, del resto ho appena ingollato l'ultimo bicchiere di vino, quello che accanna la bottiglia di un rosso piceno superiore degno della serata appena trascorsa. Ho bevuto in compagnia di un amico che non vedevo da tempo... che ha le sue stranezze... che ogni tanto si allontana da me... ed io da lui... cui voglio un gran bene, anche se talvolta non glielo dimostro... e lui talvolta non lo dimostra a me. Il mio migliore amico è lui. L'alcool brucia con ferocia qualche mio neurone, forse gli ultimi rimasti a disposizione, le mie mani corrono veloci sulla tastiera a scrivere non so che, non so cosa, sicuramente roba che un senso non ha per chi legge ma lo ha per me, perchè è un'emozione. Confusa. Inutile. Un po' triste. Ma lasciale fare. La loro velocità è dettata dalla mia voglia di buttarmi alle spalle un'emozione. E' l'inizio del mio compleanno, solito compleanno passato da solo, come io voglio che sia. Non me ne frega un cazzo di festeggiare, a me interessa vivere. E' così, vivendo, che riesco a festeggiare ogni ora della mia vita. Ogni mio respiro. Perchè io respiro. A volte con fare ansioso, a volte con maggior rilassatezza, a volte mi lascio trascinar dagli eventi ed è come se il respiro non fosse più mio. Mi adeguo al ritmo degli altri, dimenticando quel che sono e quel di cui ho bisogno. Ma sempre più spesso il respiro è solo mio. Tutto mio, e di nessun altro. 
Non importa tutto ciò. Non ora. Importa quel che ora sento e che l'alcool sta annebbiando. Ho paura. Paura di cosa, di chi, e perché: è ciò che mi chiedo. Ma la paura resta. La mente si confonde tra mille ricordi e mille emozioni, mi sento in palla, su questo non ci piove, ma... Ma, cazzo, sulla punta delle mie dita c'è ancora la percezione tattile di un fianco che loro hanno toccato. Che loro hanno palpato. Che loro son riuscite ad amare pur essendo stata una roba di pochi minuti, forse di pochi secondi. E' la prima volta che una percezione tattile rimbomba così forte su tutte le pareti del mio cervello in modo da render vive certe sensazioni. Ed io ora me le godo. Ed io oggi voglio piangere. Di felicità. Ma voglio anche amare quel fianco. Perchè io sento che sotto quella maglia bianca che avvolgeva un corpo da favola c'è un cuore che avrebbe voluto battere, ma ha smesso di farlo... perchè la vita non va mai come vorresti che vada... ma tante volte, inaspettato, dietro l'angolo, dietro l'apparente nulla... c'è il tutto. In mezzo al tutto, vive il mio sogno

SENTIRSI RINASCERE

E poi mi scopro a guardarmi intorno ed a scoprire con meraviglia che non tutto quello che mi circonda è merda. C'è del bello attorno a me, tanto bello. Lo vedo, lo sento, lo vivo sulla mia pelle. Così tutta quella negatività che sprizzava da tutti i miei pori si attenua e viene relegata in un cantuccio del mio cuore. Torna laprimavera. Sboccia all'improvviso facendomi esultare. Impazzire d'amore. Nuovi sentimenti si affacciano curiosi sul mio viso, e si riflettono nei miei occhi. E' lì, è lì che brilla il mio amore.
Amore.
Si, amore. Amore per più donne. Amore per gli amici. Amore per il sesso. Amore per la vita che dentro me batte forte e s'impossessa di tutto il mio essere, rendendomi felice. O forse è la felicità che mi rende innamorato di qualsiasi cosa viva. La felicità. Mai persa del tutto, ma i fatti della vita talvolta la offuscano facendomi perdere la strada e lasciandomi solo in mezzo ad un deserto di sofferenza. Capita però talvolta che all'improvviso la si ritrovi.

La vedi, la riconosci. E' nel fondo di un bicchiere di Passerina. O nelle risate dei miei amici. O nel calore di una figa bagnata. O nella mia mano che cinge un fianco di don
na. Nella mia bocca spunta un irrefrenabile sorriso, i miei occhi riprendono a brillare di felicità. Poi, soli nella solitudine, imprigionati da quattro mura che mura sono solamente per chi non sa andare oltre, lasciano che la felicità bagni tutto il mio corpo. Mentre nella mia mente scorre il film di tutti quei fotogrammi di felicità che insieme creano una gran storia, la mia mano accarezza distratta il fianco sbagliato...

SWEET DUBLIN


Le palpebre sono terribilmente calate, riducono i miei occhi a poco più di una fessura. Sarà il sonno, stanotte si è dormito poco e male; però cazzo se abbiamo riso!!! Saranno le Guinness; tante, troppe per il fegato ma non ancora abbastanza per il cervello. C'è sempre qualcosa da dimenticare. O da festeggiare. O tutt'e due. C'è sempre una buona scusa per bere, soprattutto quando si è in ottima compagnia. Osservo attentamente i miei amici. Barbagli di luce impressionano la mia pupilla. Merito (o colpa) dei capelli bianchi che ogni giorno di più adornano le loro teste. Le nostre teste, sempre più vicine agli -anta. Ci penso per una frazione di secondo, provo quasi paura. Quarant'anni son tanti. I nostri calici di Guinness cozzano tra loro mentre gli occhi fissano gli occhi e le labbra pronunciano un “cin”, sempre meno cin e sempre più sballottato a destra e a manca dalla potenza distruttrice di un alcool che in queste serate è il perfetto collante. Giù risate a profusione. I miei occhi si posano nuovamente lì. Osservano il bianco nel nero o nel castano scuro. Il tempo avanza, ti travolge, ti porta via con sé e cancella la gioventù lasciando nostalgici ricordi.
Questo accade solo se tu lo vuoi. Se non senti e trovi la forza dentro te che ti faccia reagire. Perché, e questo me lo insegnò la mia vecchia Polo 1.0 anno 1998, “lagiovinezza è un limite che non è segnato sul libretto di circolazione; la gioventù la cerchi e trovi dentro te. E poi devi avere la forza di preservarla dagli agenti esterni”. Così si espresse la mia vecchia auto rispondendo agli sberleffi che la volevano catorcio da rottamare. Lei me lo sussurrò, quasi a tranquillizzarmi. A lei non importava cosa dicessero gli altri. Lei arrivava dove voleva, senza limite alcuno. Io lo sapevo. Non l'ho mai abbandonata. E lei mai ha abbandonato me. Per trecentomila lunghi chilometri.
Quelli della Soffitta sono così. A vedere le loro barbe incolte sempre più bianche o i loro capelli diradarsi ed incanutirsi o i loro volti scavati dopo un week-end a prova di bomba, potresti dargli un soldo bucato. Loro invece ti pisciano in culo. Di te fanno polpette, e non vivono di ricordi. Quel che è successo un istante fa è già passato e dimenticato. Ora è importante vivere l'oggi. Di ieri preservano lo spirito. Solo quello. E forse qualche foto, se hanno l'accortezza di farle prima di esser risucchiati dal vortice della goliardia fino al punto da dimenticare di aver con loro una macchina fotografica. È quello lo spirito che conta, solo quello. La carta d'identità è carta da culo. L'aspetto esteriore è uno specchietto delle allodole. Guarda dentro loro, se riesci a farlo. Se sai come si fa. Se sai cosa voglia dire. Se hai consapevolezzadi te stesso. È là, dentro le loro anime, che troverai la sorgente della vita di coloro che vivono esistendo ed esistono vivendo.
Perché quelli esistono davvero.
Perché quelli vivono davvero.

L'AMORE

Prendi ogni mio respiro,
ti appartenga della mia vita ogni istante;
lo sai, di te tutto ammiro.
Non importa dove tu sia, vicino o distante

sappi che il mio pensiero
mai si allontana da te.

Brucia di passione il mio sospiro
brama una donna vuole un'amante
scoppia la testa, tutto diventa nero
Comincia ferino e finisce ansimante

il corpo esulta fiero
la mente urla un autodafé.

La vita riprende il solito giro
e lei che mi ha visto sul suo corpo danzante
ha chiuso con me l'era del raggiro.
Nell'armadio la pongo, e chiudo le ante

scarico il peso, mi sento leggero
e fors'anche un po' fiero di me

ma è l'amore... che non so più dov'è

nella morte, la vita

Fu un mio errore
troppo calore inaridisce
inutilmente ho cercato di riparare
l'irreparabile
ho provato di tutto
la luna,
le stelle,
tutto l'universo t'avrei donato
per averti ancora verde e rigogliosa
ma tu inaridivi ogni giorno di più
disperazione
il tempo corre via
nuovi fiori nascono
vecchi ne muoiono
ma a te mai ho rinunciato


ho sempre sperato in te
fermamente
con tutto me stesso


Mai inverno fu più lungo
pieno di nebbia,
di acqua,
di buio
e di un'illusione: di vederti rinascere
d'improvviso, la primavera
esplosione di verde e di colori
nuova vita intorno
nei volti
nelle piante
ma non in te
resti un ramo secco
ingiallito dal sole
marcito dall'acqua
privo di linfa vitale


ho sempre sperato in te
fermamente
non son riuscito a buttarti via


Quando meno te l'aspetti
un attimo prima dell'addio
sei rinata
d'incanto
meravigliosa
ancora piccola,
ma sarai grande
sempre più grande
e profumata
e rigogliosa
mi regalerai i tuoi frutti
berrò il tuo succo
e con te nutrirò tutti i miei sensi
mai ho smesso di credere in te
sin da quando eri solo un seme

isteria

Ricorda sempre che non è giusto riversare la propria isteria su chi non c'entra nulla. Piangi, sfogati, urla la tua rabbia al cielo, prendi la giusta decisione e sorridi alla vita... cambia poco se sei incazzata e nervosa, isterica e depressa: a soffrirne sei sempre e solo tu. Da sola. Agli altri poco importa. Ma quando la sera spegni l'ultima sigaretta ed asciughi l'ultima lacrima, mentre le stelle stan lì a guardarti e forse un po' di pena per te la provano anch'esse, mentre anche la luna si sente giù al punto da mostrare solo uno spicchio di sé quasi a voler evidenziare il buio che l'avvolge, lascia che un raggio di sole trafigga il tuo cuore e lo faccia parlare. Tu devi solo ascoltarlo. Poi andrà tutto bene.

lacrima di luce

Ascolta
Ascolta quel che ho da dirti
Ascolta il silenzio delle mie parole e osserva la luce dei miei occhi
È forte e viva 
È lì che si mal cela il mio cuore

Sorrido, pensandoti sempre più lontana 
Le labbra si distendono a raccogliere una lacrima di luce
Che per terra non finirà
Mai

Istintivo,

quale sono, quale sono sempre stato, quale sempre sarò. Non tediatemi con discorsi sulla maturità che un uomo dovrebbe avere alla mia età. Sorrido scuotendo la testa. Peu importe. Io voglio essere ogni giorniodi più quel che mi va di essere. Che sicuramente non andrà bene a te, ma va bene a me. Tu non sei me,ricordalo bene. Non giudicarmi mai, perché quando mi guardo allo specchio nei miei occhi vedo me. Non te. E' a me stesso che devo render atto. E se io arrossisco davanti alla mia immagine riflessa perché son stato quel che non volevo essere,non è bene. Lasciate che sia me stesso. Sempre. E comunque. Sento la necessità e la voglia di piacere a me; a nessun altro.

Luglio 1981

Riccio! Ogni riccio un capriccio!
rideva, la donna. Lui grugnì di disappunto sempre più forte e si allontanò da quel volto tanto caro ma che in quel momento ispirava in lui tanto odio. Odio. Parola troppo grande per un bimbetto di dieci anni, in un mezzo pomeriggio di un'afosa giornata di luglio quando intorno c'è solo il silenzio col sottofondo di un frinire di cicale. Aveva appena finito di leggere un bel libro, e non voleva cominciarne un altro. Era solo, di andare al mare non ne aveva voglia. Voleva qualcosa di più, ma non sapeva esattamente cosa... Invece lo sapeva benissimo. E lo sapeva benissimo anche lei. Lo cercava disperatamente, ne aveva un forte bisogno eppure tanta paura di chiederlo. Di riceverlo. Di sciogliersi tra le sue braccia. Lei provava ad avvicinarsi, ma lui fuggiva. Lontano. E grugniva fastidiosamente. Arrivarono ai ferri corti. Poi arrivò mamma sorella. Vide la scena, capì. Gli diede i soldi e lo mandò a comprare il gel. Hair gel. Lui rimase stupito, ma l'idea gli piacque. Si precipitò nel negozio chiedendo un tubetto di hair gel. C'era, evviva. L'aprì ed odorò. Aveva un buonissimo odore. L'idea che qualcuno passasse le mani sui suoi capelli per applicargli il gel gli fece venire i brividi. Pagò e corse a casa raggiante come mai. Mamma sorella lo fece sedere, gli bagnò i capelli ed applicò il gel sui suoi ricci. Lui era emozionatissimo. Sentiva la pelle friggere, una sensazione stupenda. Per un secondo chiuse gli occhi, poi li riaprì per paura che qualcuno vedesse quel suo stato di felicità suprema.
I ricci scomparvero, più o meno tutti. Anche quelle mani non ci sono più. E nessun altro paio di mani ha accarezzato i miei capelli con tanto 
affetto come fece mamma sorella quel tardo pomeriggio di un'afosa giornata di luglio.


"Ma io ho una bambina, negli intervalli,
che mi accarezza i bianchi capelli.
E gli anni si fanno docili al suo tocco
mi bacia sulle guance crudeli
e giochi pazienti di rami mi intreccia
con le sue pupille da gatta"
(tratto da "ecco com'è che va il mondo" di Franco Battiato)